La psicoanalisi può apparire trincerata in “assetto difensivo”; tale posizione è da rintracciare alle radici ed è probabilmente da considerare consustanziale alla sua stessa essenza. Nata in seno alla scienza medica, la psicoanalisi di Freud ha dovuto fronteggiare diversi ostacoli per poter emergere come scienza e come metodo concepibile ed accettabile e assumere finalmente un proprio statuto indipendente ed autorevole preservando la propria nascente mission. Fu lo stesso Freud a creare un corpus teorico solido e a difenderlo fortemente da ogni nuovo apporto, selezionando rigidi criteri di ammissibilità teorico/tecnica in base ai quali considerare un pensiero come “psicoanalitico” o non. Probabilmente una tale rigidità difensiva ha contribuito all’edificazione di un’identità compiuta; sebbene ormai essa sia ampiamente riconosciuta, è plausibile pensare che nel profondo la psicoanalisi continui a percepirsi ancora come incerta e, per questo motivo, si chiuda spesso in un’autoreferenzialità uroborica che non si lascia facilmente contaminare dall’esterno. Credo che possa risultare rassicurante ereditare un corpus stabile di conoscenze incontestabili ed ergerle a definitive ed indiscutibili per non sentirsi smarriti di fronte alla vastità della complessità umana e, di converso, possa elicitare un assetto difensivo qualsiasi cosa possa apportare cambiamento allo status quo. Purtroppo questo atteggiamento tanto profondo quanto radicato finisce con lo spingere allo svuotamento; la psicoanalisi sembra avere già prodotto quanto poteva avere in sé (Eissler) e nel suo essere determinata a mantenere un tale ripiegamento autoreferenziale e speculativo, rischia di qualificarsi definitivamente come prescientifica, parziale e dogmatica.
Le neuroscienze rappresentano una possibilità di nutrimento per la psicoanalisi; le conoscenze in ambito neurobiologico si propongono di sostenerne la validità scientifica, di rilanciarne il paradigma creando un’opportunità di ristrutturazione del pensiero. L’inconscio psicoanalitico e l’inconscio neurobiologico non sono sovrapponibili, tuttavia non possiamo non riconoscere che quanto seguitiamo a definire come “mente”, contrariamente ad ogni speculazione filosofica, è un’espressione del cervello. Il cervello è un organo plastico, in continuo mutamento, in connessione profonda e incessante col mondo circostante; le esperienze plasmano la sua struttura e vengono registrate attraverso veri e propri cambiamenti sinaptici. La possibilità della cura, quanto il rischio della malattia, risiedono proprio nell’epigenetico, nella possibilità di modificazione dell’espressione genica che, contrariamente a quanto immaginato, non si configura come un destino di inoppugnabile immodificabilità ma come un infinito ventaglio di possibilità che ha inizio nella vita intrauterina e viene mediata dall’attaccamento perpetuandosi per l’intera esistenza.
Alla luce delle attuali conoscenze neuroscientifiche risulta inesorabilmente riduttivistico pensare che la psicoanalisi curi portando alla coscienza i contenuti inconsci rimossi ed inaccettabili; la cura comprende un rimodellamento delle connessioni sinaptiche attraverso le memorie implicite, ossia un incremento/modificazione della gamma di strategie procedurali del paziente attraverso un potenziamento sinaptico delle connessioni governate dall’amigdala, un’integrazione estesa tra le aree cerebrali ed una rivitalizzazione della funzione inibente della corteccia prefrontale sul dominio sottocorticale secondo una dinamica top down. Una tale consapevolezza ci fornisce la possibilità di ripensare funzionalmente il setting terapeutico e la sua valenza, di allontanarci da una visione assiomatica, ritualistica ed automatizzata. L’uso della parola (di pertinenza prefrontale, area coinvolta altresì nel controllo e nella modulazione dell’emotività, del comportamento e nella pianificazione) favorisce proprio questa integrazione corticolimbica consentendo un ridimensionamento dell’arousal emotivo, una globale modulazione affettiva ed un ampliamento della conoscenza autonoetica.
La sofferenza mentale produce una dissociazione delle funzioni emisferiche; a favorire l’integrazione emisferica l’esperienza relazionale sana e sicura con il terapeuta (in infanzia l’esperienza di un attaccamento sicuro con il caregiver) in grado di promuovere l’autoregolazione emotiva intesa come capacità di mantenere uno stato mentale aperto e flessibile di fronte ad un innalzamento dell’arousal emotivo (come accennato ci riferiamo alla neuromodulazione corticolimbica: aumento della competenza prefrontale mediale, del cingolato e dell’insula).
Nella memoria implicita risiedono tracce sensoriali, emotive, motorie presimboliche e preverbali inconsce, che esprimono la qualità della loro presenza in maniera procedurale, costituendo il “tra le righe” del nostro comportamento. E’ qui che rimane inscritta la qualità della relazione primaria d’attaccamento, sotto forma di tendenze alla reazione, emozioni e comportamenti. Il termine inconscio, che è lecito potere utilizzare in riferimento alle memorie implicite, in questo caso si differenzia dall’inconscio rimosso freudiano; qui ci riferiamo ad un inconscio non rimosso che attiene ai primissimi anni di vita del bambino e che è non cosciente proprio in virtù del fatto che le strutture coinvolte nella memoria dichiarativa esplicita non sono giunte a maturazione (primariamente l’ippocampo). La terapia opera anche attraverso e su queste memorie, favorendo l’integrazione del livello implicito ed esplicito, integrazione che risulta estremamente danneggiata da fattori stressanti e traumatici che, al contrario, producono una dissociazione. Memoria ed emozione risultano, pertanto, parte di un unico processo: l’emozione “marca” gli engrammi valutabili come importanti e quindi immagazzinabili dall’ippocampo. Ma se la componente emotiva diviene eccessiva, l’amigdala risulterà iperattivata (produzione di adrenalina e noradrenalina) e connessa a sua volta con l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene chiamato a produrre grandi quantità di glucorticoidi – cortisolo , senza nessun circuito a feedback inibitorio da parte della stessa amigdala. Il cortisolo ha un effetto tossico sui nuclei dell’ippocampo e può condurre fino a morte neuronale con conseguente atrofia ippocampale in casi di stress cronico; forti stress determinano una paralisi del processo d’immagazzinamento esplicito. Ecco che, ancora una volta, le neuroscienze si rivelano in grado di dare corpo alle teorizzazioni psicoanalitiche; questo sembra essere un valido modello neurobiologico per il meccanismo di rimozione che, in realtà, sarebbe una vera e propria amnesia da inefficienza ippocampale ed iperattivazione amigdaloidea. La psicoanalisi può intervenire sulle memorie inserendosi all’interno del processo di riconsolidamento: quando una traccia viene evocata essa diviene fragile e sensibile ad ulteriori modificazioni, allo scopo di riaggiornare la traccia integrandola con nuovi elementi e rafforzarla rendendola più duratura. È stato dimostrato che tali successive modificazioni della traccia originaria, in realtà, costituiscono ex novo una traccia altra, parallela all’originale. Contrariamente alle tracce della memoria dichiarativa alla cui rievocazione non segue un periodo di facile modificabilità, le tracce implicite rimangono sensibili per un periodo di tempo più significativo. La cura può realizzarsi mediante il processo di riconsolidamento costruendo un set di memorie implicite alternative a quelle disfunzionali da reimmagazzinare con un livello ed un’intensità emotive ridimensionate.
Mi sembra che questa conoscenza, unitamente alla consapevolezza del ruolo della corteccia prefrontale destra (orbito frontale) e delle sue connessioni corticolimbiche, possa costituire il substrato neurobiologico del concetto di rêverie bioniana, dell’opera di contenimento e della trasformazione di elementi beta (emozione pura) in elementi alpha (integrazione di elementi emotivi e di pensiero) mentalmente sostenibili.
La psiconeuroendocrinoimmunologia ci informa che la sofferenza relazionale di cui la psicoanalisi tratta è una sofferenza biologica; dobbiamo appurare che ogni malattia della mente è una malattia del corpo e che, dunque, delineare aree di pertinenza “psicosomatica” risulta un’operazione artificiosa e ridondante. La PNEI sana la frattura profonda, venutasi a creare nei secoli, tra res cogitans e res extensa, tra mente e corpo. Ogni esperienza di vita stressante è patogena nel determinare una modificazione del sistema immunitario, dunque una modificazione del sistema di difese di cui si avvale l’organismo per fronteggiare l’ambiente circostante. Tale indebolimento può determinare un grande spettro di patologie la cui matrice è indelebilmente epigenetica.
Riguardando la mia posizione iniziale ed il mio rapporto con l’impianto teorico e metodologico della psicoanalisi, credo di non essermi fatta sufficienti domande. Il panorama delle neuroscienze mi ha stimolata nel pormene sempre di nuove; nella fattispecie credo che aderire alla terminologia psicoanalitica (dunque alla sua prospettiva della malattia e della cura, alle sue categorie mentali) mi abbia fornito conforto, come se la complessità di una mente mi potesse apparire meno spaventosa se affrontata con Freud, la sua rimozione ed il suo inconscio, a me così tanto familiari. L’attingere ad una dimensione neurobiologica non poteva che apparirmi svilente e riduttivo rispetto alla profondità di un pensiero complesso quale quello psicoanalitico, in grado di rendere autonomamente giustizia ai significati profondi della sofferenza individuale. Qui, poi, il vuoto di tutte le domande non poste. Come fa la mia parola a generare cambiamento? A che scopo preciso è diretto lo sforzo di formulare un’interpretazione tecnicamente corretta nel momento giusto? Tecnicamente corretta rispetto a quali punti di riferimento? Momento giusto per chi? In che modo la relazione terapeutica può essere quell’ “esperienza emozionale correttiva” leva del cambiamento? Cos’è il cambiamento? Cosa mi devo aspettare che accada? E cosa sta succedendo adesso che ho scelto di dire “tua figlia” anziché il nome proprio della stessa? E adesso che ho deciso di muovermi su un piano simbolico anziché concreto o viceversa? Perché la mia paziente non mi parla della morte del padre avvenuta quando aveva 2 anni? Rimozione, cos’è? Come si realizza? Che cambiamento si attiva sedendo su una poltrona rispetto che sdraiandosi su un lettino? In che termini ciò che faccio, le espressioni del mio viso e del mio corpo, concorrono ad influenzare lo stato emotivo del paziente? Ma dov’è l’inconscio? Siamo tutti accomunati dal desiderio di raggiungerlo ma non ci premuriamo di chiederci di che materia sia fatto.
Senza queste domande sia la teoria che la tecnica diventano un esercizio intellettuale ed afinalistico, rituale quanto narcisistico, di cui non si intravede che un minimo senso (che molto spesso consiste nella ripetizione di una spiegazione dogmatica, cui potrebbe senza alcuno sforzo sostituirsi un “perché è così”).
Ripensando ai miei pazienti cerco di rintracciare le basi dei successi o dei fallimenti della mia cura alla luce delle nuove conoscenze. Riporterò quelli maggiormente trattati in supervisione.
Giorgia, 9 anni, giunge in terapia a causa di ripetuti sintomi ansiosi in occasioni di (anche brevissime) separazioni dai propri genitori, tanto che gran parte delle proprie attività quotidiane cominciano a risultare piuttosto problematiche. Il suo malessere si esprime principalmente con crisi di pianto e pensieri catastrofici riguardo l’incolumità dei propri genitori e della propria sorella minore. Giorgia è molto intelligente e dimostra di essere sensibile e capace di aprirsi alla possibilità di una condivisione delle proprie difficoltà. La madre, Elisabetta, appare ansiosa e discretamente intrusiva; figlia di una madre con diagnosi di disturbo bipolare sembra avere notevoli difficoltà a regolare la propria presenza/assenza nella vita di Giorgia, dunque, a promuoverne una crescente autonomia. Ho sentito come necessario pormi principalmente due obiettivi: costruire una relazione sicura che desse la possibilità di fare esperienza di una figura costante e contenitiva rispetto le angosce di distruzione e promuovere contestualmente una separazione/ autonomizzazione. Mi è possibile adesso pensare che la relazione di attaccamento insicuro ansioso ambivalente fosse conservata a livello della memoria implicita rendendosi comprensibile come timore della mancata prevedibilità degli eventi legati alle figure genitoriali, dunque come uno stato mentale di globale insicurezza e paura incoercibile. Questa paura in occasione della separazione, può essere ricondotta ad un’ipersensibilizzazione amigdaloidea (probabilmente marcata già dalla vita intrauterina) ed a una contestuale iperattivazione del sistema dello stress che, innescando l’ asse ipotalamo – ipofisi – surrene, determinava un aumento del livello di cortisolo ematico senza che l’amigdala riuscisse ad esercitare un controllo feedback inibitorio. L’uso di un linguaggio affettivizzato, che coinvolge la corteccia frontotemporale sinistra e la fondazione di una relazione sicura, che coinvolge la corteccia orbitofrontale destra (le connessioni di quest’ultima con l’ipotalamo ed il tronco encefalico consentono il controllo di istinti e pulsioni, nonchè l’integrazione tra stati somatici adattivi e stati emotivi) ha gradualmente consentito a Giorgia la costruzione di Modelli Operativi Interni (come forme di interiorizzazione relazionale) alternativi e sicuri. Ciò potrebbe essere ricondotto ad un potenziamento dell’area prefrontale in grado di esercitare una sempre maggiore modulazione cortico-sottocorticale del sistema limbico. E’ stato possibile, dunque, generare nuovi stati mentali impliciti, favorire un’integrazione tra memorie implicite ed esplicite attraverso un potenziamento dell’integrazione globale tra aree cerebrali, che consentisse a Giorgia un “poter essere” alternativo al precedente e di maturare la propria coscienza autonoetica.
Edoardo, 66 anni, colonnello dell’aeronautica, è affetto da una grave forma depressiva da quando aveva 30 anni. Non segue alcuna terapia farmacologica. L’unica seduta fatta rivela un accentuato bradipsichismo, anedonia, disturbi della memoria, umore fortemente depresso e connessioni molto labili. E’ ipotizzabile che in Edoardo vi fosse una forte asimmetria emisferica con scarsa attivazione frontale sinistra, responsabile della mancanza di sentimenti positivi e depressione, congiuntamente ad un’iperattivazione frontale destra, area che presiede comportamenti di ritiro attivo e affetti negativi. La cronicizzazione di tale configurazione cerebrale, la carenza di serotonina, dopamina e noradrenalina non compensata da alcuna terapia farmacologica, nonchè l’aumento di glucorticoidi che si riscontra generalmente in soggetti depressi, possono essere considerate responsabili della disregolazione affettiva e dei forti disturbi cognitivi (pseudodemenza). La produzione cronica di cortisolo determina un globale rallentamento della neurogenesi, un’ipotrofia dell’ippocampo a causa di un’ingente produzione di glutammato, neurotrasmettitore eccitatorio in grado di causare un’eccessiva e prolungata neurotossicità. In tal modo in alcune aree cerebrali, come quella ippocampale, si genera una sofferenza neuronale (con retrazione dendritica, raggrinzimento cellulare ed apoptosi) che determina una progressiva perdita cellulare, non compensata da meccanismi neurogenetici (a loro volta inibiti dall’iperfunzione HPA e carenza di BDNF). E’ plausibile immaginare che il sistema di memorie esplicite, le capacità di apprendimento, la valutazione emotiva del contesto relazionale di Edoardo fossero gravemente compromesse e dissociate dalle memorie implicite. La cronica dissociazione tra aree cerebrali, nonché l’impoverimento neurale, responsabile dell’evidente condizione di decadimento psicofisico, avrebbe potuto lasciare pochi margini ad una possibilità di profondo cambiamento.
In ultima analisi, credo che le neuroscienze forniscano alla psicoanalisi la possibilità di potenziare le propria fondamenta e reclamare la propria dignità di scienza, consolidando e complessificando la propria identità ed il proprio operato; è impensabile che ad oggi si ostini a conservare posizioni radicalizzate di chiusura difensiva rispetto contaminazioni interdisciplinari, che accetti di impregnare la propria validità di sfumature mistico-religiose, di assiomi dogmatici e tautologie, facendo della propria nobile essenza una speculazione intellettuale e un’adesione gregaria ad un “credo”.