Impensabilità ed irrapresentabilità

La psicoanalisi investe la parola di un potere centrale, analitico e terapeutico-trasformativo, in quanto prodotto di movimenti economici e dinamici che rilanciano ed esprimono la natura della relazione con il principio di realtà, dunque, con il mondo interno-esterno in cui siamo immersi.
La regola fondamentale su cui si basa il contratto implicito / esplicito della R analitica, chiede che qualsiasi più o meno imperioso tumulto interiore o labile e fugace pensiero venga “tradotto” in parola e reso condivisibile, venga offerto all’Altro e posto nel “tra” di noi, in quell’intimate edge (Ehrenberg) che separa ed unisce, a gradienti variabili e fluidi, i due o più protagonisti della R analitica.
Non sempre, però, a dispetto di qualsiasi imperativo tecnico, la mente si fa (e può farsi) parola.
Anche nel contesto di un equilibrato legame con la realtà, subiamo influssi costanti e complessi dall’inconscio che tanto si faranno prepotenti, quanto più il legame con la realtà per sua natura specifica non garantisce un’adeguata distribuzione di forze e bilanciamenti (e contemporaneamente quanto più è prepotente ed inarginabile il potere dell’Inc, tanto più il legame con la realtà si sidera ed irrigidisce, diventando immensamente fragile e precario.)
Il potere trasformativo della mente deriva dalla capacità di oscillare (PS-D), dallo spessore e dalla profondità della barriera di contatto, dunque, dall’esperienza di un Altro contenitivo, di una mente che abbia potuto bonificare elementi emotivi puri e scissi, indigesti ed inelaborabili, vissuti come annichilenti e di per sé privi di qualsiasi altro destino che non sia abreattivo-evacuativo.
Ma la reverie come capacità di trasformare e fondare l’apparato per pensare i pensieri trova il suo primum movens nel non pensiero, nel beta, nella non-parola, nell’impossibilità di parola.
Al di là della condizione emblematica e primitiva dell’infanzia, il collasso della parola lascia posto alla scarica motoria evacuativa sia essa realizzata nel fatto, nell’azione, nella parola vuota di significato. Il non verbale è campo di comunicazioni complesse e fondamentali; presentifica “sacche di irrappresentabilità, di non pensabilità” che richiedono un contatto trasformativo. È proprio il modo in cui ci attendiamo questo contatto avvenga a fare la differenza e a sancire e sugellare un “fatto” come terapeutico.
Nella psicosi e nelle aree psicotiche della personalità l’interdizione della capacità di rappresentazione chiama l’analista ad istituire un contatto sensoriale affettivo, un contatto concreto, che si collochi in quell’area contiguo-autistica (Ogden) e fusionale in cui il sé e l’oggetto coincidono, in cui all’aggressività onnipotente è affidato il paradossale, duplice e contrastante compito di dividere ed unire. Il non verbale diviene campo privilegiato di richiamo di un’area materna primitiva, immatura e lesa che spinge il corpo a psichicizzarsi, ad agire, a rendere presente il non pensato e non pensabile.
La squalifica della capacità di rappresentazione testimonia la presenza di un’area preogettuale che chiama l’analista a divenire pre oggetto, a muoversi tra le rappresentazioni di cosa, tra gli affetti puri, potenti e violenti.
L’esperienza analitica deve divenire esperienza di un oggetto intero capace di resistere all’aggressività distruttiva di matrice narcisistica, di resistere alle quote sferzanti di angoscia di morte e di annichilimento. Solo se l’analista sa divenire quell’Io pelle che compatta, unisce ma separa si avrà possibilità di reverie. Ma non potrà farlo se non accetta di indossare emotivamente l’impensabilità, se non accetta di fare esperienza dell’indifferenziazione diventando quel preoggetto, se non accetta di essere per il paziente una vera e propria funzione psichica (Kohut).
Il livello preogettuale impone alla relazione analitica un contenimento concreto, materiale, in cui la parola interpretante è straniera ed incomprensibile; richiede imitazione, sintonizzazione psico-somatica con la quota affettiva che anima la parola, una parola che non è significativa, quindi, per il suo contenuto ma per l’emozione che veicola e con cui è necessario identificarsi attivamente.
Se l’Id.Pro è accoglimento “passivo” delle quote impensabili e violentemente proiettate nell’analista, l’identificazione di cui qui si parla chiama all’attiva partecipazione al transfert narcisistico preoggettuale perché è da questo che, attraverso una complessa e costante esperienza di contenimento, si potrà gradualmente giungere ad una oggettualità prima parziale e poi totale, sempre più lontana dalla rappresentazione di cosa e sempre più rappresentazione di parola, sempre meno somatico-allucinatoria-abreativa dunque narcisistica e sempre più relazionale.

Laddove la vita relazionale primaria del paziente ha dato luogo ad una profonda sofferenza psichica che inattiva o disattiva livelli mentali complessi e costringe alla chiusura autistico narcisistica, a livelli difensivi primitivi che impediscono la totalità oggettuale e la luttuosa ma necessaria rielaborazione depressiva delle proprie quote aggressive, l’analista è chiamato ad immergersi in un concreto abbraccio del dolore, tanto potente quanto inesprimibile ed irrappresentabile.
Leggere il corpo, il viso, il movimento, la presenza o l’assenza di un gesto, come una madre legge il proprio neonato incapace di parola, ma soprattutto accettare l’impossibilità di potersi difendere da tali e potenti identificazioni attraverso posizioni intellettualizzanti, isolanti e desolanti, costituiscono l’unica possibilità di esserci, di personificare una possibilità di “sopravvivenza” al paziente sconosciuta, e, dunque, di maturare NELLA relazione una tridimensionalità oggettuale.